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La metafisica del quotidiano

Davide Auricchio

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L’attualità dell’arte spesso ci costringe ad una visione del contemporaneo spettacolare e distorta, sensazionale e oscena, parossistica ed inquietante, delle volte addirittura ripugnante.
Spesso e volentieri il confine tra arte e comunicazione è inesistente e l’artista veste i panni del creativo, del politico, del giornalista, delle volte finanche del critico o del filosofo.
Nel gioco sempre più diffuso dell’essere prestati ad altre mansioni, gioco ad uso ed abuso delle strategie del marketing, la figura dell’artista si delinea piuttosto confusamente quasi a suggerire un eclettismo che immediatamente diventa sinonimo di qualità.
Allo stesso tempo, si sono estinte le categorie dell’arte e il termine opera è diventato desueto, sostituito da espressioni più crude ed alla moda come “pezzo”, “lavoro”,“manufatto”.
A parte le disquisizioni lessicali, che pure ci dicono molto, ciò che emerge è una certa difficoltà a definire il territorio dell’arte, le sue funzioni, i suoi processi di produzione, di fruizione, i suoi stessi strumenti operativi.
Analogamente, il nostro quotidiano è costretto nella complessa multidimensionalità del nostro presente, alla ricerca spasmodica di un senso ed un linguaggio atto a comunicarlo. Un quotidiano che riproduce quasi  specularmente alcuni macro-dinamiche sociali: quelle della disgregazione, del non-luogo, dell’economia immateriale, del Cyber-spazio e della globalizzazione.
Viviamo immersi in una condizione di assoluta ubiquità, dove la schizofrenia non è più una patologia ma la normalità, dove il tempo non conosce cadenze e lo spazio non ha più confini. Così, sempre più raramente capita di vivere un luogo che non sia un non-luogo, una storia che sia la propria o almeno una storia dove c’è un prima e un dopo, un tu ed un io, un soggetto ed un contesto.
Non so se è chiaro, stiamo parlando più semplicemente di identità nella duplice accezione: individuale e collettiva che, nel discorso dell’arte, ha una sua pertinenza.
Dicevamo appena prima della rarità di certi incontri, ebbene, stessa cosa vale anche per la pittura, soprattutto di questi tempi così inclini al cattivo gusto e all’iconografia oscena. Difficile trovare un quadro che comunichi, che parli della vita, quella di tutti i giorni s’intende, che racconti una storia, come appena detto, ma soprattutto capace di esprimere un sentimento o quantomeno di suggerire una prospettiva inedita.
Eppure, per quanto sporadico e saltuario possa essere, capita talvolta di imbattersi in un quadro, in un’opera pittorica, scusate il termine un po’ antiquato, capace di carpire la nostra attenzione, di innescare una sequela di associazioni libere e creative, di aiutare, anche questo è molto salutare, a ricordare e soprattutto a riconoscere.
Ebbene, da anni, ogni volta che guardo una quadro di Jan Knap mi succede proprio questo: rimango completamente rapito dalla visione che l’opera dischiude dinanzi a me. C’è qualcosa di universalmente familiare nelle pitture di Jan Knap, qualcosa di fortemente radicato nel nostro immaginario.
La grande pulizia del colore, i toni brillanti e soavi allo stesso tempo, il tratto morbido delle figure con le loro posture rilassate, sono tutti elementi di grande originalità pittorica che vanno a costruire un racconto del quotidiano tanto lineare e piacevole quanto complesso ed enigmatico.
Forse proprio qui sta l’unicità di Jan Knap, la sua grande capacità di innescare una riflessione complessa sull’agire dell’uomo e sui perché fondamentali senza trascurare la piacevolezza della pittura e della vita, nonché l’inspiegabilità del tutto. Senza rinunciare alla bellezza e all’idea di una comunità che riesce ancora a condividere spazi e azioni: di qui il ricorso sistematico ai quadretti familiari, chiara allusione ad una affettività tanto più vera quanto più inesplicabile.
Un susseguirsi continuo di micro-eventi quotidiani dispiegati in una temporalità scandita da accelerazioni e pause, dal lavoro e dalla meditazione, da aperture all’esterno e da domestica intimità.
E poi, una moltitudine di bambini che riempiono la scena e la vita di gioia e di stupore.
E così accade che anche l’osservatore più distratto coglie l’anima letteraria di Knap, il suo costante tentativo di comporre una grande narrazione pittorica del quotidiano, di tessere una trama unitaria nella complessa frammentazione del nostro presente, di rievocare il mistero celato dietro l’ordine e il disordine del mondo.

Breve anticipazione del paginone del numero 46 di Viatico, gennaio/febbraio 2008.
In occasione della grande mostra di Jan Knap allo Studio d’Arte Raffaelli di Trento.



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