KNAP
JAN - TEXTS
Pontiggia-it
La facilitá é difficile, la semplicitá é complessa. Lopera di Jan
Knap lo dimostra.
Nell'osservare la sua pittura, infatti, si puó avere 1'impressione di
trovarsi di fronte a un'opera semplice, addirittura naaf. Tanto
semplice da essere un po' irritante.
Ma come? Ci hanno insegnato a scuola tutte le buone regole del moderno:
che 1'artista crea un proprio linguaggio, privato e arbitrario;
che non imita la realtá, ma la inventa; che il passo successivo
é c~uello di uscire dal quadro e di entrare nella vita,
prelevando materiali dal1'ambiente quotidiano o facendo teatro
con il proprio corpo. Insomma, abbiamo visto di tutto, ma proprio
di tutto, e c~ui ci propongono ancora non solo la pittura, ma una
pittura cosi immediata, cosi comprensibile, cosi normale (e su
quest'ultimo aggettivo dovremo ritornare).
Per la veritá, tanto normale questa pittura non é. Che cos'é questo
dipingere come le icone, questo ispirarsi al Quattrocento? Ma non
dovrebbe essere vietato, a noi uomini del ventesimo, anzi del
ventunesimo secolo? Non si puó, non é possibile...
I lettori che conoscono Jan Knap, e che hanno familiaritá con i
molteplici incanti e la grazia della sua pittura, perdoneranno
questo esordio vagamente ironico. Per loro é superfluo. Ma forse
non é inutile, a inizio di partita, giocare d'anticipo sui
principali equivoci che di solito impediscono una vera
comprensione di questo singolare artista boemo. Come forse non é
superfluo suggerire, a chi si accosta per la prima volta alla sua
pittura, di guardarsi da una lettura affrettata.
Il lavoro di Knap é tanto raffinato intellettualmente da sembrare
elementare. La sua é una pittura mentale, non sentimentale, anche
se bimbi, amorini e dolcezze vi occupano una grande parte. Ed é
una pittura che nasce da una visione filosofica, anche se la
filosofia si mimetizza in immagini soavi, talmente soavi da
scandalizzare la nostra sensibilitá nevrotica e sofferente.
Volendo usare una formula, potremmo dire che il suo dialogo con la
classicitá, venato di una dimensione di voluta naveté, si
colloca nell'ambito del postmoder
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no e si radica nel
concettualismo, di cui rappresenta al tempo stesso un
rovesciamento e una prosecuzione. Ma 1'arte é qualcosa di troppo
importante per affidarla agli storici dell'arte e alle loro
categorie.
In effetti, come si presenta un quadro di Knap? Prendiamo una
qualsiasi delle opere qui riprodotte, per esempio Senza titolo del
1986 (p. 33).
Notiamo prima di tutto una figurazione precisa, impostata su una forma
sigillata nei perimetri, generata dalla sapienza del disegno. L'immagine
é composta, armoniosa, ad alta definizione e predilige una
dimensione ridotta, lievemente miniaturizzata, rispetto alle proporzioni
naturali. L'inquadratura é colta in genere un po' da lontano, in
modo che i primi piani e la visione ravvicinata siano banditi. La
prospettiva obbedisce a un ordinato digradare di piani, anche se
non insegue 1'illusionismo naturalistico. É una prospettiva
neoalbertiana, che peró ammette anche qualche infrazione: ció
che interessa all'artista é suggerire 1'esistenza di uno spazio
governato da regole, non gareggiare con il realismo.
Il colore predilige le gamme pure, che esaltano 1'oro della luce. Certo,
non mancano momenti in cui 1'artista esplora i valori delle terre,
la profonditá dei grigi e dei marroni, ma piú spesso sono gli
smalti, i timbri cristallini e solari ad attrarlo. "Quando
posso, quando 1'armonia del quadro me lo permette, cerco di
usare i colori puri. I colori chiari, in particolare, infondono
sicurezza, chiarezza. Amo la loro forza, la loro luminositá,
anche se non mi piace che diventino violenti, che gridino
inutilmente" ha dichiarato lui stesso.
Il colore, comunque, é subordinato al disegno, ed é steso con
precisione, senza tonalismi e cangiantismi. Dissolvenze e sfumati
sono rigorosamente aboliti. ("Un'altra cosa che non amo é
sporcare i colori. I colori sono 1'immagine della personalitá.
Sono un mistero, sono come persone che vanno rispettate nella loro
identitá.")
Con questo stile ormai definito (forma chiusa, classica,
neoquattrocentista) Knap dipinge il mondo del suo desiderio e del
suo sogno: un universo in cui regna la bellezza, 1'armonia, la
bontá, e in cui, secondo le teorie neoplatoniche e tomiste, ció
che é bello coincide con ció che é buono. Perché 1'uomo, anche
se il suo nome rimanda etimologicamente alla polvere e alla terra
(humus), ha un'origine e una vocazione eterna. E, secondo la
rivelazione cristiana, Dio ha preso forma umana perché gli uomini,
gravai da un'inadeguatezza
of deliberate naivety,
finds its place within the post-modern and is rooted
in the conceptualism of which it at one and the
same time represents an overturning and a prosecution. But
art is something which is too important to be entrusted to
art historians and their classifications what does a
picture byk. Actually look like? Let š tahe any of
the worhs reproduced here. For example, Untitled of I986
(p. 33).
.8
radicale (peccato
significa, in realtá, mancanza, insufficienza), riacquistassero
dignitá divina.
Queste concezioni filosofiche e religiose assumono, nella pittura di
Knap, la veste affabile e 1'umile splendore di prati primaverili,
di interni domestici, di amorini che volano come rondini in un
cielo sereno. Il soggetto piú ricorrente dei suoi c~uadri é un
nuovo paradiso terrestre: una commedia umana (o una divina
commedia) in cui compaiono santi, angeli, una coppia di sposi con
i loro bambini. Una famiglia, o una Sacra Famiglia (i confini sono
molto labili, perché il sacro si incarna nell'umano e 1'umano si
eleva al sacro, in un'oscillazione che non si interrompe) vive
nella luce di un eterno giardino, o in una casa di bambola,
compiendo i piccoli gesti dell'esistenza di tutti i giorni,
secondo ritmi e azioni e compiti che non sono quelli del ventesimo
secolo, ma nemmeno quelli del passato.
Nell'opera
di Knap, infatti, c'é un continuo processo di
contemporaneizzazione dell'antico e di eternizzazione del
contemporaneo. Osserviamo 1'angelo di Senza Titolo 1986 (p.
28). Su uno sfondo immobile, come un sipario chiuso, un angelo
annuncia la fine del tempo. Con il piede schiaccia un teschio,
emblema della morte, mentre il cartiglio arrotolato, segno di
resurrezione e di trionfo, porta scritti in caratteri invisibili i
nomi dei vivi.
Il soggetto é solenne, grandioso. Ma al posto delle trombe araldiche 1'angelo
sta suonando un flauto dolce, di quelli con cui si insegnano le
prime note ai bambini, e intanto percuote un tamburo di cartone,
che deve aver trovato in qualche stanza dei giocattoli.
Da
un lato, dunc~ue, Knap umanizza, rendendoli lieti e affettuosi,
i temi piú alti e sacrali. Seguendo un procedimento caro alla
cultura fiamminga e nordica, ma anche ai primitivisti di ogni
tempo, dal Doganiere Rousseau in avanti, interpreta 1'iconografia
metafisica traducendola nel sermo humilís della fiaba,
dello stupore fanciullesco, della dimensione d'infanzia (che, si
intende, é tutt'altra cosa rispetto all'essere infantile: infantili,
puerili, possono essere gli adulti, non i bambini).
A
qualcuno potrá dar fastidio la dolcezza di questa pittura. E del
resto lo stesso Knap ricorda che le sue prime opere nacquero
anche con un intento di provocazione: alla fine degli anni
Settanta la scelta delle immagini sacre risultava ben piú
eversiva e urticante, per la sensibilitá e la cultura piú
diffuse, che qualsiasi sperimentalismo, anche il piú eccentrico,
o qualsiasi perfor
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mance, anche la piú
estrema. Tuttavia 1'intento polemico si é progressivamente
attenuato, fino a divenire inessenziale nelle motivazioni dell'artista.
Mentre non si é af fievolita 1'esigenza teoretica sottesa alla
sua iconografia: 1'idea, cioé, di una divinitá che non incute
soggezione, né tanto meno timore e tremore, ma si rende simile
alle creature piú piccole. Quell'immagine che giá Sartre trovava
sconvolgente: un Dio che ha tre anni, che ride. . .
D'altro lato, accanto a questa umanizzazione del sacro, per cui la
Madonna lava il piccolo Gesú in un catino di žinco, S.
Giuseppe coltiva gli alberi nel frutteto e Gesú stesso gioca con
il trenino, il camion e la scatola degli acquerelli come un
qualsiasi bambino degli anni Cinquanta (ma insieme si dovrebbe
parlare anche di una sacralizzazione dell'umano, perché la
casalinga con il cappello di paglia e il grembiule da cucina
diventa una nuova Virgo Virginum) si assiste a un
sovrapporsi e a un mescolarsi del tempo.
Le reminiscenze trecentesche e quattrocentesche, evidenti nell'iconografia
del Cristo risorto, di S. Giorgio e il drago, di S. Sebastiano e
S. Gerolamo, della Madonna del Latte; gli elementi classici,
espliciti nei cartigli, nelle colonne, nelle edicole filiformi
al centro del paesaggio, non indicano solo una volontá di
evocazione dell'antico, ma anche un modo diverso di pensare íl
flusso cronologico.
A questo punto, per spiegare meglio questo concetto, é necessaria una
digressione (occorreranno una quarantina di righe, per cui chi
vuole puó saltare direttamente alla pagina successiva).
C'é un modo di pensare il tempo come una freccia irreversibile, che
dal passato va verso il futuro. É il modo di ogni modernitá, da
Catullo e dai poetae novi in poi, e in forma piú estrema
é il modo delle avanguardie, secondo cui ció che é nuovo ha
infinitamente piú valore di ció che é antico, appunto perché
é, nuovo, originale, mai realizzato prima. In questa logica, in
cui é fondamentale non solo 1'innovazione, ma anche la data del
suo compimento, il passato é definitivamente passato. Piú o meno
analogamente, un atleta cerca di stabilire un nuovo record, non di
emulare i record precedenti.
C'é invece un modo, che per semplificare chiameremo classico, di
pensare il tempo come un cerchio ininterrotto, nel quale passato
e presente si saldano. In questa logica, in cui non é
fondamentale il fare per primi ma il fare bene, il passato non é
affatto passato, ma é ancora presente, ancora vivo.
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É quello che intendeva Poussin, quando alla metá del Seicento,
passeggiando sul Pincio, si chinava a raccogliere una manciata
di terra, e diceva: "Questa é Roma aritica". La Roma di
Cesare e dei Cesari non si trova nei musei, nelle schede
bibliografiche, ma vive qui, ora.
In questo senso, per venire ai giorni nostri, Pound nello Spirito
romanzo ( 1913) sošteneva che "tutte le etá sono
contemporanee". E qualcosa di simile affermava Proust, quando
scriveva nella Recherche che chi dorme tiene in cerchio
intorno a sé il filo delle ore,1'ordine degli anni e dei mondi.
Anche un artista "sogna", nel senso piú consapevole e
filosofico del termine. E quindi anche 1'artista tiene in cerchio
intorno a sé 1'ordine dello spazio e del tempo. Per questo
Antonio Machado in Juan de Mairena ( 1936) distingueva fra
un passato immodificabile (se sono nato di venerdi é
impossibile che sia venuto al mondo in qualsiasi altro giorno
della settimana) e un passato che lui definiva "apocrifo":
quello che vive nella nostra memoria ed é continuamente ripensato,
sognato, ricreato.
Del
resto, cosa fa Eliot, quando nella Terra desolata, vedendo
la folla che cammina al mattino sul ponte di Londra, intuisce che
quella folla, che vive in un giorno imprecisato del ventesimo
secolo, é la stessa dell'Inferno dantesco: "e io non
credeva che morte tanta ne avesse disf atta"?
Sempre Eliot, nel capitolo della Morte per acaua ("Phlebas
il Fenicio, morto da quindici giorni / dimenticó il grido dei
gabbiani, e il fondo gorgo del mare / E il profitto e la perdita /
. . . / Gentile o Giudeo / o tu che volgi la ruota e guardi
nella direzione del vento / considera Phlebas, che un tempo fu
bello, e alto come te") ci trasporta nel Mediterraneo del
primo secolo, in cui sono ancora vivi i Fenici (Phlebas é morto
solo due settimane fa) e in cui é ancora in uso la distinzione
fra Gentili e Giudei. Anzi, si rivolge a noi come se anche noi
fossimo naviganti fenici, o Ebrei del primo secolo. E non sbaglia,
perché ognuno di noi ha conosciuto dualche Phlebas, tra Wall
Street e Piazza Affari. I Fenici sono ancora vivi.
Fermiamoci e chiudiamo la digressione. Non era nostra intenzione
gravare di una genealogia troppo alta e ingombrante, di padri
nobili e non richiesti, la ricerca di un giovane artista
contemporaneo. Volevamo solo suggerire alcune coordinate
possibili (al di lá di quelle piú ovvie, interne agli anni
Ottanta) di un modo di concepire il tempo e la storia. Non
esclusa la storia dell'arte.
Quando Jan Knap adotta
spazialitá e forme neoquat
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trocentesche non
intende operare una citazione, cioé prelevare un frammento di un
capolavoro antico e inserirlo nel corpo molle della propria
opera. E infatti, piú che di citazioni dirette, dovremmo parlare
di atmosfere, di evocazioni, di assonanze linguistiche.
Prendiamo Senza Titolo del 1991 (p. 43), che ha per tema il trionfo del
bene sul male, sottolineato anche dal S. Giorgio che si intravede
in lontananza.
Sullo sfondo di un paese roccioso, in cui si incastona la gemma di un
lago alpino, siede una Madonna col Bambino, che assiste attenta al
combattimento dell'Arcangelo col serpente. Tutta 1'impostazione
dell'immagine, dalle rocce mantegnesche ai cartigli che si
agitano come stelle filanti, richiama 1'antico. Lo stesso sipario,
che divide il primo piano dallo sfondo, evoca un artificio
tardoquattrocentesco: il modo con cui i maestri del primo
Rinascimento inserivano la divinitá nel paesaggio, ma al tempo
stesso la separavano dalla scena terrestre, salvaguardando la
distanza tra Creatore e creatura.
Tuttavia se cercassimo un modello preciso, un quadro specifico, un
maestro a cui ricondurre esattamente quest'opera, non lo
troveremmo. Knap mette in atto una reinvenzione raffinata, una
contaminazione complessa tra gli elementi della composizione.
Anziché citare, fa rivivere le immagini antiche. "Quando
qualcosa mi piace - ha dichiarato una volta - sento il bisogno
di rifarlo, anziché di citarlo. Devo dire che mi vergognerei a
usare foto o a copiare dei particolari di qualche quadro. Del
resto un quadro é un organismo. E non c'é vita in un frammento
riutilizzato al di fuori del suo contesto".
Come
sempre, anche in quest'opera agisce quel meccanismo di
ambientazione quotidiana che avevamo giá individuato. La Madonna
indossa una maglia e una gonna di stampo moderno, anche se di
fattura indefinibile: Tutta la scena ha il sapore di una
passeggiata in montagna. E 1'Arcangelo-bambino lotta contro il serpentello
non diversamente da come un gitante eliminerebbe una vipera,
prima di stendere per terra il plaid del picnic.
Lo sforzo di Jan Knap, peraltro, come ormai vediamo nitidamente, é
quello di riportare in circolo il patrimonio della storia dell'arte,
la continuitá della tradizione linguistica. In questo senso,
proprio facendosi carico dei compiti della memoria, tornando a
gettare lo sguardo sull"`immenso edificio del ricordo",
1'artista partecipa del clima culturale degli anni Ottanta, e in
generale della temperie postmoderna, che riapre il dialogo con il
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museo, mettendo in discussione i dogmi della modernitá. La sua
ricerca, la sua stessa scelta di praticare la pittura, anziché
usare materiali extra-pittorici, é in sintonia con i presupposti
di quel clima.
É
una sintonia, si intende, molto parziale, intessuta di una concordia
discors che porta Knap a seguire un percorso autonomo,
solitario. L:artista boemo non condivide le scelte del
neoespressionismo, della transavanguardia, della pittura "cattiva"
o selvaggia di ascendenza italiana, americana o tedesca.
Piuttosto riceve una profonda suggestione dall'opera di Salvo, e
in particolare dal ciclo di S. Giorgio e il drago, che
diventa anche un suo soggetto ricorrente. Tuttavia la sottile
reinterpretazione dei temi classici in chiave di linguaggio basso,
quasi con grafia di illustrazione, ex-voto o fumetto, che si
rivela in certi esiti di Salvo (pensiamo ai S. Giorgio virati
in gamme cromatiche eretiche, al di fuori di ogni gioco della
memoria) non appartiene a Knap. Le sue "variazioni sul tema"
si incentrano sulle invenzioni iconografiche, non sulle forme o
sui colori, che non conoscono forzature soggettive o primitivismi.
L'ironia,
poi, che é stata la musa degli anni Ottanta, non é affatto la
musa di Knap. Nelle sue opere si puó trovare gioco, commozione,
malinconia, levitá, incanto, non certo il distacco presupposto
dall'atteggiamento
® Maestro
di Vyšší Brod, Discesa dello Spirito Santo (particolare),
Galleria Nazionale, Praga.
Master
of Vyšší Brod, Descent
on the Holy Spirit (detail), National Gallery, Prague.
Maestro Vyšší Brod, Cristo sul Monte degli ulivi (particolare),
Galleria Nazionale, Praga.
Master
of Vyšší Brod, Christ
in the garden (detailJ, National Gallery, Prague.
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ironico. L'.ironia, se c'é, é diretta semmai verso i dogmi dello
spettatore, verso le sue certezze e i suoi pregiudizi di uomo
colto del ventesimo secolo.
Volendo trovare un parallelo con 1'opera dell'artista boemo, anche se le
proiezioni orizzontali rischiano di risolversi in esercitazioni
accademiche, si potrebbe forse sconfinare nel campo dell'architettura,
pensando a scelte espressive come quelle di Leon Krier.
Tuttavia, per capire veramente la pittura di Knap, non bisogna guardare
solo al presente, ma inoltrarsi nel passato, soprattutto nel
Quattrocento italiano e boemo. Come ha osservato lui stesso "certe
assonanze con artisti contemporanei, che alcuni notano nel mio
lavoro, dipendono dal fatto che abbiamo guardato agli stessi
maestri. Gli artisti che mi hanno veramente segnato sono stati i
grandi del passato che vedevo nei musei: prima a Praga, poi in
Germania, a Roma, dappertutto".
Il Quattrocento, dunque. Lasciamo ancora parlare Knap: "Il
Quattrocento é stata un'epoca felice, un'epoca che manteneva una
profonditá di fede antica. Nello stesso tempo il linguaggio del
Quattrocento a noi risulta giá pienamente comprensibile, é giá
il nostro. Gli artisti che amo di piú sono nati nel Quattrocento:
Lorenzo Lotto e Antonello da Messina. Non a caso si tratta di due
maestri che hanno avuto entrambi un rapporto con I'arte nordica,
il che me li rende piú vicini. Trovo che entrambi, Lotto e
Antonello, sanno bene unire il dolce stile italiano e la vera
malinconia dell'arte nordica... L'.Angelico mi interessa meno di
quanto si potrebbe pensare. Non é cosi importante nella scala dei
miei amori. Certo, vedo sempre le sue opere con ammirazione, ma
poi le dimentico anche facilmente. Invece le opere di pittori come
Antonello e Lotto vibrano sempre dentro di me".
Oltre
a queste reminiscenze si ritrova in Jan Knap (e non potrebbe
essere diversamente) il ricordo dell'arte gotica boema, studiata a
lungo soprattutto nella Narodni Galerie di Praga. Le Storie
di Cristo del Maestro di Višší Brod (Hohenfurth, 1350), il
Cristo nell'Orto, la Deposizíone e la Resurrezione
del Maestro di Trebon (Wittingau, 1380) o il Polittico della
Passione di Rajhrad, come le opere del Maestro di Litomerice, si
caratterizzano, anche, per ur~,a straordinaria intelligenza del
dettaglio. La capacitá narrativa dei maestri boemi, la sapienza
con cui sanno raccontare un filo d'erba, un pettirosso che ha il
nido sull~ chioma di un albero,1'incresparsi di un velo, 1'eleganza
di uno stivaletto, disseminando la tavola di infiniti elementi
lineari e cromati
venture into the field of
architecture while thinking of expressive choices such
as those made by Leon Krier.
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ci; la loro attenzione, insomma, alla vitalitá dei particolari
attenua forse il valore sintetico della composizione, ma
testimonia un amore accorato per la concretezza dell'esistenza, e
insieme una pietas carica di immediatezza e di umanitá.
Di questi maestri Jan Knap ha certamente amato lo stile policentrico: il
moltiplicarsi, cioé, degli elementi compositivi, dei nucleí
narrativi del quadro, che non sono mai aneddoti, ma episodi
rivelatori. Ogni suo quadro é composto, in realtá, di molti
quadri. Ogni particolare, ingrandito, potrebbe tradursi in opera
autonoma. Si assiste come a un lavoro di intarsio, in cui molte
idee si accostano spazialmente, quasi a formare un polittico
ideale. E ogni opera nasce anche da una proliferazione narrativa,
dal piacere di moltiplicare gli elementi figurali, di seguire i
mille rivoli di una storia visiva.
Un'altra costante, tipicamente boema, che si puó ritrovare nel lavoro
di Jan Knap é 1'interesse per un'iconografia religiosa sospesa
fra evocazione e invenzione fantastica.
Diciamo "tipicamente boema", pensando per esempio a un artista
come Bohumil Kubista che, come dice il suo nome d'arte, é stato
uno dei seguaci piú tempestivi di Picasso e di Braque. Bohumil ha
dipinto alla metá degli anni Dieci, secondo le scomposizioni
spaziali del cubi
Jan
Zrzavy, Annunciazione, 1943-1957, cm. 28x36.
Jan
Zrzavy, Annunciation,
1943-1957, cm. 28x36.
15
smo, un San Sebastiano.
Era un soggetto insolito, anzi unico, ispirato da una sensibilitá
ben diversa da quella francese. Mentre Picasso e compagni
riducevano i loro temi a pochi motivi ricorrenti (gli strumenti
musicali, le carte da gioco, i tavolini, le bottiglie e i
bicchieri), Bohumil riconduceva la lezione delle avanguardie
alla propria secolare tradizione iconografica. Sentiva il bisogno
di ispirarsi a un soggetto sacro, pur lavorando alla scomposizione
dello spazio e della forma.
Abbiamo
citato Bohumil come emblema di una sensibilitá iconografica,
non perché abbia qualche rilievo nella geografia affettiva di
Knap. Chi invece per lui ha contato, fra i maestri dell'arte boema
moderna, é piuttosto Jan Zrzavy (1890-1977), da noi pressoché
sconosciuto.
Giá negli anni Dieci Zrzavy dipingeva figure animate da un primitivismo
mistico e metafisico. In opere come L'incontro di Emmaus o
Il Sermone della montagna esprimeva una visionarietá
onirica, pervasa di una umanissima religiositá. Cristo vi
appariva come in un'illustrazione infantile o in un ex-voto.
Nelle opere del dopoguerra, invece, prevale una figurazione dalle
linee piú arrotondate e le sue figurette levigate, pregne di una
dolcezza ingenua, lasciano un segno nell'opera giovanile di Knap
.
Ma a questo punto é il caso di fornire qualche informazione
biografica piú precisa sul nostro artista.
Jan Knap nasce a Chrudim, nell'ex-Cecoslovacchia, nel 1949. Dimostra giá
in etá adolescente una precoce attenzione all'arte e riceve i
primi rudimenti del mestiere da uno scultore oggi dimenticato.
Alla "scienza" della pittura, peraltro, Knap sará
sempre profondamente interessato. Ma é una scienza che deve
approfondire da solo, impiegando anni di tentativi e di
esperimenti per- capire le qualitá e le proprietá dei colori, le
finezze tecniche, i trucchi e i segreti di una grammatica artigianale
che in passato era tramandata di bottega in bottega, e che oggi
ogni pittore deve scoprire da solo, lentamente, faticosamente.
Ancora in etá giovanile Knap studia i maestri della scuola boema, alla
Narodni Galerie di Praga, ma si avvicina anche all'arte moderna,
innamorandosi di Cézanne e di Modigliani. Intanto awerte
drammaticamente le contraddizioni del regime, le falsitá dell'ideologia.
Il padre subisce anche una condanna per motivi politici. Le
circostanze si fanno difficili.
Dopo la primavera di
Praga Knap decide di abbando
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nare il paese e si trasferisce in Germania, iscrivendosi al1'Accademia
di Di~sseldorf, dove ha per maestro Gerhard Richter.
Sono gli anni in cui anche Beuys insegna in accademia, ma né lui né
Richter hanno qualcosa da dirgli. (O forse si. Quante volte il
nostro carattere, le nostre scelte intellettuali maturano per
contrasto, non in accordo ma per reazione a quanto ci viene
proposto da un insegnante, dall'ambiente, dal momento storico. E
forse anche per Knap non deve essere stata senza influenza la
vicinanza di un padre dell'arte concettuale come Beuys, in quanto
gli ha permesso di valutare nelle sue forme piú alte il percorso
che non voleva seguire. Peraltro, come é stato notato, anche 1'attraversamento
linguistico operato da Richter puó aver esercitato qualche
influenza su Knap: pensiamo solo a un esito richteriano come la
reinterpretazione dell'Annunciazione tizianesca. Ma si
tratta comunque di suggestioni inessenziali.)
La formazione di Knap, peró, non si esaurisce nel1'ambito artistico.
Piú tardi, a Roma, dal 1982 al 1984, compirá studi di filosofia
e di teologia, resi anche piú intensi dall'avvicinamento alla
religione cattolica. E abbiamo giá accennato (ma mai come in c~uesto
caso repetita iuvant) che tutta 1'iconografia dell'artista,
la famiglia di angioletti e di piccoli santi che abita nei suoi
paesaggi, non nasce da una leziositá emotiva, da un ottimismo
banale, da un gusto dell'idillico e dell'edulcorato. É invece
la traduzione, in immagini di straordinaria luce, di una
prospettiva teoretica radicata, di una convinzione metafisica
profonda, raggiunta non attraverso le tranquille vie dell'abitudine,
ma attraverso una riscoperta dolorosa.
Lo stesso ricorrere del tema dei bambini o degli angelinfanti
obbedisce non a una stucchevolezza da nursery, ma a una
logica evangelica. Iideale cristiano non sono gli adulti, gli
intellettuali, i cattedratici, ma i piccoli. A loro é rivelato ció
che é nascosto ai sapienti e agli intelligenti.
Solo nel nostro secolo, del resto, la bellezza e la grazia sono state
viste con sospetto, come sinonimo di fatuo ornamento, se non di
educata ottusitá. Muovendo dalla consapevolezza, ovvia, che 1'esistenza
é un dramma, se ne é dedotto che 1'arte debba esprimere soprattutto
il dramma e che 1'artista debba fare teatro con la
Jan Knap, Mondrian,
1979. ·
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propria
angoscia. (Eppure Renoir ha dipinto le sue Veneri piú gloriose
duando era vecchio, deformato dal1'artrite, incapace ormai di
dipingere se non a prezzo di atroci sofferenze, facendosi legare i
pennelli alle dita. E quando Matisse era andato a trovarlo, e gli
aveva chiesto perché continuasse a dipingere, Renoir gli aveva
risposto: "Ricordati che il dolore passa, ma la bellezza resta".
E Matisse aveva fatto tesoro della lezione.)
Ma
torniamo al percorso espressivo di Knap. Dopo gli anni di
Diisseldorf 1'artista si trasferisce a New York, dove rimane dal
1972 al 1982. Il suo lavoro, attraversata una fase espressionista
e una breve stagione astratta segnata dall'interesse per
Mondrian, giunge alla fine degli aríni Settanta a una figurazione
immediata, primitivistica, contraddistinta da una prospettiva
ripida e ribaltata.
Un'opera
come Mondrian del 1979 ì quasi un diario delle ricerche di
questi anni. In una stanza angusta, come la cella di un monaco
medioevale, compaiono una serie di simboli che alludono alla morte
("Io penso sempre alla morte", ha dichiarato 1'artista).
Una candela consumata e una clessidra simboleggiano il rapido
passare del tempo; gli occhiali rotti e la scopa rimandano a un'idea
di deperimento, di scoria; 1'uccellino che vola via dalla finestra
ì un simbolo antico dell'anima che si stacca dal corpo.
Alla
parete di questa camera pericolante un quadro di Mondrian esprime
una speranza di ordine, di logica, di razionalitá: ì duasi il
corrispettivo laico della croce sul tavolo.
Ma
ormai in questi anni all'interesse per Mondrian ì subentrato
quello per una figurazione di leggibilitá immediata. (E
tuttavia 1'amore per la pittura astratta, per la geometria
rigorosamente costruita, rimarrá una costante nel lavoro dell'artista.
Opere come Senza titolo del 1986, sono costruite come un teorema
geometrico, anche se le coordinate cartesiane sono sostituite
dalle verticali del tronco d'albero e del rastrello, dalle bande
orizzontali della casa e dell'ombra, dalla diagonale portata
dall'angelo sullo sfondo e dall'asta appoggiata alla panca. Opere
come Senza titolo del 1987 (p. 39), sono dominate da una
superficie astratta. Ma tutta la pittura di Knap, in realtá, ì
innervata da una geometria segreta, mimetizzata, che puó
richiamare le ordinate asimmetrie del neoplasticismo, come le
ortogonali puntiniste di Seurat. I:esigenza di un'essenzialitá
geometrica si accompagna, in modo uguale e contrario, al gusto della
composizione complessa, carica di elementi analitici.
1.8
Del resto
la stessa mancanza di titoli nei quadri - quasi tutte le tele di
Knap portano come unica didascalia Senza titolo - si puó
ricollegare all'interesse giovanile dell'artista per la dimensione
solo visiva e formale del1'opera.)
Proprio
il 1979 é 1'anno in cui Knap fonda, con Peter Angermann e Milan
Kunc, il gruppo "Normal", con cui espone ad Aquisgrana
nel 1981 e a Di~sseldorf nel 1984.
Nonostante
la lontananza geografica che separa i tre artisti (in questo
periodo Knap vive a New York, Kunc a Colonia e Angermann presso
Norimberga), e nonostante la differenza dei loro esiti pittorici,
il Gruppo trova un comun denominatore nel desiderio di superare
gli eccessi dell'ermetismo concettuale. "Normal", peró,
ha vita breve, anche se le sue istanze di semplicitá, di
immediatezza, di anti-intellettualismo rimarranno vive nella
pittura di Knap, come del resto in quella di Angermann e di Kunc.
Sono
di questi anni opere come Senza titolo del 1984 qui pubblicata (p.
22), in cui la grafia é ancora segnata da lievi intemperanze
emotive di ascendenza espressionista, evidenti nelle zone di
colore striate e nel disegno parzialmente corsivo.
La
costruzione spaziale é spesso ancora arcaica, per esempio in
Tommaso da Kempis scrive "Limitazione di Cristo",
dove una prospettiva medioevale, ma anche cézanniana, si
coniuga con una figurazione condotta per masse tondeggianti. É
infatti solo dal 1985-86 (sebbene persistano anche in questi
anni volute irregolaritá prospettiche) che la sintassi di Knap
giunge a una nitidezza definitiva.
Dai
primi anni Ottanta, comunque, la sua pittura si articola
essenzialmente in tre grandi categorie di soggetti: i santi, la
famiglia e 1'iconografia sacra. Appartengono a quest'ultima, per
fare solo qualche esempio, una visionaria variazione, innevata e
invernale, sul tema della Fuga in Egítèo (p. 29); 1'Annunciazíone
del 1986 (p. 33), con la commovente invenzione del Bambino che si
presenta, insieme con 1'angelo, alla Madre; la Resurrezione del
1987.
Mancano
invece, tra i temi cari all'artista, gli episodi piú drammatici
della storia sacra, come la Crocifissione ("Non credo che ne
sarei capace. Mi piacerebbe, ma
Tutte
le dichiarazioni di Jan Knap qui riportate sono tratte dall'intervista
con chi scrive, contenuta in: Elena Pontiggia, Jan Knap,
Edizioni Galleria Toselli, Milano 1993.
19
adesso
sento che non é nelle mie possibilitá espressive. Questo peró
non significa che non abbia un'idea drammatica della vita .
") .
La
biografia nomade di Knap, intanto, registra nuovi capitoli. Dopo
il soggiorno a Roma, in cui studia in seminario fra il 1982 e il
1984, si trasferisce a Colonia, dove rimane fino al 1989. Subito
dopo viene a vivere in Italia, a Modena. Nel 1992, infine,
rientra nella ex Cecoslovacchia, dove sceglie di abitare in un
piccolo paese non lontano da Austerlitz, tra Brno e Praga: poco
piú che un villaggio, circondato dai prati e dalle colline che
ricorrono in numerosi suoi quadri.
Ma
a tanti irrequieti spostamenti 1'artista fa corrispondere una
fedeltá profonda alle ragioni della sua pittura, che in questi
anni prosegue coerente con le pro
prie
premesse.
Come
potremmo dunque definire la sua opera, a conclusione di questo
breve scritto?
La
pittura di Jan Knap ci raggiunge con il suo candore e la sua
sapienza, la sua classicitá e la sua contemporaneitá, la sua
eloquenza e il suo mistero. Edenica nei suoi significati e nei
suoi ideali, é una pittura tutt'altro che "buonista",
anzi é soffusa di una muta intransigenza verso le certezze dell'arte
del nostro tempo. Ma é soprattutto una pittura luminosa. Come
un sorriso, come un miraggio.
Elena Pontiggia
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